La resistenza agli anticoagulanti: un fenomeno che merita attenzione
È negli anni ‘40 del secolo scorso che entrano in scena i rodenticidi anticoagulanti di prima generazione (warfarin, clorofacinone, difacinone, cumatetralil) a sostegno di una battaglia atavica contro i roditori commensali, rivoluzionando la tecnica del controllo con una sicurezza e un’efficacia ritenuti eccezionali. Entusiasmi, che alla luce di possibili effetti collaterali su specie non bersaglio e la comparsa della resistenza, costrinse a rivalutare criticamente le molecole così largamente impiegate.
Infatti, fu sufficiente un decennio di utilizzo per registrare nel Regno Unito e poi in molti altri paesi europei e di tutto il mondo, nuclei di ratti e topi resistenti costringendo all’introduzione dagli anni ‘70 degli anticoagulanti di seconda generazione (difenacoum, bromadiolone, brodifacoum, flocoumafen and difethialone).
Sfortunatamente, anche la resistenza agli anticoagulanti di seconda generazione è stata sempre più osservata interessando allo stato attuale, e limitatamente alla situazione europea, almeno sette paesi (a tal proposito si veda https://guide.rrac.info/resistance-maps/house-mouse/europe/italy.html).
La resistenza agli anticoagulanti è una grave perdita di efficacia dovuta alla presenza nella popolazione target di una sensibilità ridotta ed ereditabile all’effetto tossico dell’esca, nonostante la sua corretta applicazione.
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